A pochi mesi dall’esplosione del Coronavirus in Italia, l’indicibile si è tramutato, quasi tragicamente, in dicibile: quanto non riuscivamo a nominare e a comprendere entro le nostre categorie interpretative sino a poche settimane fa, oggi appare, forse con inganno, più chiaro.
L’indeterminato è stato, in qualche modo, “addomesticato”: se non sconfitto, il virus è stato “normalizzato”, agglutinato nelle nostre affaccendate quotidianità e “concettualmente” superato. Lungi dall’aver problematizzato o trasformato radicalmente le nostre esistenze − così come prometteva o minacciava di fare – il virus le ha “sospese” per qualche tempo.
Quanto abbiamo vissuto in Italia e quanto ancora infuria nel resto del mondo sembra possedere alcuni caratteri del tutto speciali, che poco condividono con il nostro passato più recente o, almeno, con quel passato di cui abbiamo più vivida memoria. Negli ultimi mesi, si è avuta come l’impressione di affrontare una enormità sconosciuta: qualcosa di grande, dai contorni sfumati e sfuggenti, non delimitata né afferrabile, imponderabile e imprevedibile. Queste le sensazioni che hanno generato maggiori paura e spaesamento. In realtà, come è stato variamente sottolineato, non si tratta della prima pandemia al mondo, eppure il modo della sua diffusione e i mezzi a nostra disposizione sembrano aver conferito alla pandemia un carattere di unicità.
Con l’espressione “modo della diffusione” faccio riferimento alle infrastrutture proprie della città globale in cui abitiamo, contraddistinta da una sovrana iperconnessione. La rapidità degli spostamenti fa del nostro spazio globale il pabulum ideale per la propagazione non solo di beni, ma anche e soprattutto di virus e di batteri. L’immediatezza, poi, dell’odierna comunicazione ha rappresentato, alternativamente, un pericoloso strumento di diffusione della paura e di contro-informazione ideologica e un enorme vantaggio per la nostra comunità scientifica, dunque a beneficio della collettività tutta.
D’un tratto, la nostra indolente e irriflessa condizione di cittadini globali ha rivelato tutti i propri limiti: vivere all’interno di una comunità globale e iperconnessa non significa soltanto avere la possibilità di raggiungere l’altro capo del mondo in ventiquattro ore, acquistare o commercializzare prodotti al di là di dogane e frontiere, ma significa sviluppare organismi politici e unità internazionali in grado di fronteggiare problemi di portata transnazionale. La pandemia, con tutta la sua potente carica emergenziale ed extra-ordinaria, ha, di fatto, portato a emergenza una condizione che si farà via via sempre più ordinaria. Il prossimo futuro, se non l’adespoto presente, è costellato di problemi di portata universale, che chiamano in causa la responsabilità collettiva e di ciascuno. La pandemia ha, dunque, sancito la discrasia che erode le nostre comunità: siamo consumatori globali − in una «metacittà mondiale il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte» (P. Virilio, La bomba informatica, 2000) – privi, tuttavia, di dispositivi politici e morali in grado di governare la sopraggiunta complessità.
Una discrasia, questa, a cui corrisponde, simmetricamente, una politica che oscilla tra il più gretto revanscismo nazionalista e le più fiacche spinte internazionaliste, ispirate perlopiù al principio della sola globalizzazione del Capitale.
Curiosamente, proprio il Capitalismo quale «ordine sociale istituzionalizzato» − per utilizzare l’espressione di Nancy Fraser (N. Fraser, Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, 2020) – ha costituito, da un lato, il set ideale della tragedia e, dall’altro, il convitato di pietra della sceneggiatura. Nel primo caso, il capitalismo fattosi «ordine della materia e dello spirito» (E. Donaggio, nella sua premessa a Il nuovo spirito del capitalismo, 2014) ha predisposto le condizioni ecologiche per la diffusione del virus: lo sfruttamento scriteriato delle risorse ambientali agevola l’ormai noto fenomeno dello spillover, esacerbando le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi (surriscaldamento globale, polveri sottili, piogge acide, etc.). Nel secondo caso, il tristemente familiare lockdown ha determinato una condizione che sembrava impossibile realizzare diversamente, ossia la sospensione della produzione.
La pandemia ha infatti comportato il blocco quasi totale della maggior parte delle nostre attività in quasi tutto il mondo, sfidando in questo modo l’inarrestabilità del Capitale e disvelandone l’assoluta storicità, ossia la sua natura contingente. Se è possibile ridurre o sospendere del tutto l’apparentemente incessante macchina capitalistica e, malgrado ciò, continuare a vivere, allora è altrettanto possibile immaginare una forma di vita diversa da quella dominante, in cui il lavoro non coincide con la produzione anancastica di denaro. Un lavoro, cioè, che sia componente vitale e non letale del singolo e della comunità.
La pandemia ha de-naturalizzato il Capitalismo, mostrandone la storicità, spogliandolo del suo presunto carattere di necessità e ascrivendolo entro la categoria del possibile. Questo riconoscimento non sradica, ipso facto, il Capitalismo come forma di vita, ma in qualche modo lo depotenzia, anche solo insinuando la possibilità di modelli di vita e di mercato differenti.
L’iscrizione della tentacolare forma del Capitale entro il regno della possibilità implica, al contempo, una gravosa responsabilità per noi tutti, cioè quella di provare a ripensare le nostre comunità superando le mortifere categorie di mercato entro cui sono tuttora costrette. Sull’economico che «ha assorbito in sé la possibilità stessa del politico» interessanti sono le riflessioni svolte da Giovanni Leghissa (Neoliberalismo. Un’introduzione critica, 2012).
Pensare a modelli di vita radicalmente alternativi rispetto a quelli odierni è impresa piuttosto ardimentosa, che inevitabilmente dovrà misurarsi con la capacità propria del Capitale di rigenerarsi, di fagocitare e integrare entro il suo metabolismo produttivo qualsiasi velleità oppositiva o addirittura rivoluzionaria. «Non vi è infatti trama o pulsione eversiva che esso non sia stato in grado, almeno fino a oggi, di risucchiare nella propria orbita. Rendendole inerti, ipocrite o, addirittura, funzionali alla logica di accumulazione e profitto che nutre quell’astrazione concretissima e resiliente che definiamo “capitale”», (E. Donaggio, nella sua premessa a Il nuovo spirito del capitalismo, 2014).
Così, la sensazione è che, mentre ci si affanna nell’individuazione di un vaccino in grado di contrastare la diffusione del maledetto Coronavirus, altre forze, ugualmente devastatrici, abbiano già provveduto alla formazione di resistenti anticorpi.
Il desiderio ossessivamente evocato di “ripartenza” e l’effettiva quasi immediata ripresa dell’attività produttiva testimoniano, ancora una volta, questa capacità del Capitale di azzerare le spinte a esso antagoniste.
A pochi mesi dall’esplosione della tragedia, sepolte le migliaia di vittime, il sole agostano − sostenuto da un mercato “che non dorme mai” – sembra aver spazzato via ogni buon proposito di fare di questa pandemia l’occasione perfetta per attaccare il Capitale e le morbose condotte di vita che esso impone attraverso le blandizie delle merci.
Sarebbe stato bello poter compilare un’altra cartolina di questa estate 2020, una cartolina fatta di nuovi desideri e di nuove libertà. Restano, invece, un duraturo autunno delle passioni, milioni di mascherine e un mar Mediterraneo in cui annegano persone, sogni di vite migliori e i fumi di Beirut.
*Il testo è stato scritto nel contesto di un laboratorio dal titolo La memoria del possibile. Per una narrazione condivisa, realizzato a cura di Enrico Donaggio (Università di Torino, Università di Marsiglia) in forma telematica nel periodo del lockdown, fra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2020.