Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Tommaso Gazzolo - Riaprire le università?

17 settembre 2020

 


1. Sembra che, tra i professori, sia unanime la convinzione che riaprire le università, ricominciare lo svolgimento regolare delle lezioni in presenza, costituisca una necessità imprescindibile. Giorgio Agamben ha avuto il merito di porre la questione al livello cui merita di essere pensata. E con la radicalità che merita: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Ma, allo stesso tempo, egli è costretto ad ammettere che «di ogni fenomeno sociale che muore si può  affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle». Si può, si deve, convenire con Agamben su due punti essenziali. Il fatto che le università siano state, in Italia, le prime a chiudere e le ultime – forse – a riaprire, che si vi sia stata l’introduzione della “didattica a distanza” o del cd. blended learning, è indicativo della funzione che, oggi, è ad essa riconosciuta da parte del potere politico. 

Ma se l’università ha potuto essere “digitalizzata”, se per un semestre la didattica on line ha sostituito quella in presenza – senza che sostanzialmente ne abbiano risentito gli obiettivi “aziendali” delle università: produzione di “crediti”, lauree, etc. – è solo perché essa aveva già raggiunto, aveva già in sé le condizioni che hanno reso possibile questa sostituzione. Non occorre ripercorrere, ora, la storia dell’università moderna, il conflitto che l’attraversa dall’interno, il suo costante essere in “crisi”. È sufficiente mettere in rilievo un aspetto: che se la “didattica a distanza” può essere adottata, è solo perché l’insegnamento è già pensato come “trasmissione” di un sapere codificato, comunicazione di informazioni. 

2. Più che “criticare” questa idea del sapere – e dunque rimettere in gioco un pensiero dell’università che, a partire da Kant, dovrebbe giungere perlomeno fino al discorso lacaniano – occorre anzitutto vedere come essa si leghi strettamente alle trasformazioni delle nostre società avvenute a partire dalla metà degli anni ’90, e portate, oggi, ad un nuovo punto di svolta dalle misure adottate in seguito alla pandemia.  

È difficile dare torto a Agamben: l’emergenza sanitaria – reale, effettiva, di certo esistente –  ha obiettivamente funzionato – consapevolmente o meno – come ciò che ha determinato un’accelerazione di una serie di processi già in atto. O, in altri termini: la situazione eccezionale non ha cambiato le nostre condizioni sociali, il nostro modo di vivere: ne ha, portandolo alle sue “estreme” conseguenze, rivelato ciò che esso era già divenuto. 

    Se quelli che viviamo ora ci sembrano rapporti sociali diversi da quelli di prima, è semplicemente dovuto al fatto che, normalmente, non si vivono mai le proprie condizioni d’esistenza per quello che sono realmente. Eravamo già isolati e distanziati, come conseguenza della rivoluzione digitale, che è una rivoluzione antropologica, e non “tecnologica” – riguarda, cioè, il divenire-uomo da parte dell’uomo. 

Nel 1995 Paul Virilio aveva osservato come l’istantaneità dei mezzi di trasmissione – la rivoluzione della comunicazione in “tempo reale” – provocasse una “inerzia crescente”, non richiedendo più la mobilità delle persone, ma soltanto «la loro mobilità sul posto». In altri termini: l’accelerazione e la velocità delle comunicazioni, non richiede affatto un individuo che si sposti, ma, al contrario, una specie di «handicappato motorio equipaggiato per controllare il suo ambiente domestico senza spostarsi fisicamente». 

Se le rivoluzioni nei trasporti e nell’informazione del XIX e XX secolo (la ferrovia, il telegrafo, l’aeroplano, la radio, la televisione etc.) sono rivoluzioni della mobilità delle persone – che cominciano a spostarsi per lavoro, per svago, e così via – e favoriscono anzi al massimo tale mobilitazione generale, la rivoluzione tecnologica degli anni ’90 annulla le distanze, con la possibilità di comunicare e connettere tutto in tempo reale, e per questo non richiede più che le persone si spostino. Al contrario, ha bisogno della loro “inerzia domiciliare”, perché ciò che deve funzionare è la loro continua connessione alla rete – e quindi, meno si spostano, meno se ne vanno in giro, meglio è, in fondo. 

Da qui il paradosso: la stessa rivoluzione che ha definitivamente annullato le distanze, che ha reso possibile comunicare all’istante con un cinese o un sudafricano, avvicina tutti quanti, ci rende tutti “vicini”, ma proprio per questo produce, come modo di vivere più adeguato ad essa, il cittadino handicappato, chiuso in casa. L’accelerazione delle comunicazione, portata all’estremo, produce la sua istantaneità – che, per definizione, è senza un “tempo”, e non prevede alcuno “spazio” da percorrere. 

La mobilità, spinta al suo estremo, si rivela essere immobilità assoluta. Se non ci sono più distanze, non c’è più nemmeno movimento. E, viceversa, se non c’è più movimento, la riduzione delle distanze non indica altro che la nostra nuova condizione di essere permanentemente a distanza. Il “distanziamento” sociale, sotto tale aspetto, non sarebbe stato neppure pensabile se non fossimo già vissuti in una realtà fondata sulla distanza permanente. Una espressione come “incontrarsi in rete” – ormai d’uso comune da almeno un decennio – non suona più contraddittoria come in realtà è, non ci fa sentire più la contraddizione che essa ha ormai risolto. 

Non c’è bisogno, del resto, di ricordare come tutta la produzione e circolazione di beni e servizi – di qualsiasi genere – sia da tempo organizzata secondo il principio per cui il consumatore non deve spostarsi, ma rimanere a casa. Per questo la “consegna a domicilio” è diventata la modalità essenziale del mercato. Non devi essere tu a spostarti per consumare, perché, in questo caso, il mercato di riferimento – e l’area della concorrenza tra imprese – sarebbe ridotto allo spazio che il consumatore può coprire. Devi rimanere a casa per ricevere, da ogni parte del mondo. I film, i pasti, i libri, i vestiti: tutto viene consegnato a domicilio – questo è l’effetto dell’annullamento delle distanze: non la mobilità permanente, ma l’immobilità assoluta. Se così è, allora è evidente che recarsi al cinema, uscire a cena al ristorante, andare a spasso peri negozi del centro, erano abitudini già storicamente superate, che appartengono al “passato”, forme di socialità legate a rapporti di produzione non più esistenti. 

La “quarantena” non ha fatto che portare i rapporti sociali alla loro forma reale, adeguata alle società in cui, almeno dalla metà degli anni ’90, abbiamo cominciato a vivere. Perché l’annullamento delle distanze è la stessa cosa del distanziamento permanente.

Certamente non ci sarà un nuovo “lockdown”, ed abbiamo ripreso ad uscire di casa. Ma non è questo il punto. Il punto è che il modo di tornare alla “normalità” sarà solo un “ritorno al passato”, e quindi qualcosa di destinato, prima o poi, a essere superato anche nei fatti. In questo senso, l’“eccezione” non fa che mostrare un processo già in atto, e la futura normalità, l’esito verso il quale esso sta andando. Si torna allora a scuola, sui banchi, ma non è che un ritorno a qualcosa di ormai “passato”, che storicamente non esiste più: la quarantena ha ormai dimostrato che la didattica a distanza, la scuola “a casa”, è l’ideale verso cui già tendevamo, e che presto o tardi si imporrà anche nelle nostre vite “normali”. Analogo discorso varrà per il lavoro, per i nostri svaghi, per le nostre attività “culturali”, e così via. L’handicappato – lo aveva detto benissimo Virilio - è l’uomo del futuro: handicappato motorio, super-equipaggiato, capace di ricevere stimoli, informazioni, da ovunque, di entrare in contatto con chiunque, di scambiare ogni tipo di informazioni. 

3. Ciò che ci si ostina, si ripete, a non vedere, è come la rivoluzione digitale non sia affatto una rivoluzione tecnologica, dei mezzi di comunicazione: diversamente, è una rivoluzione della comunicazione come mezzo, e dunque dello stesso essere-uomo dell’uomo. Perché il mezzo, lo strumento non qualcosa che si “aggiunga” all’essere dell’uomo, a ciò che siamo, ma è ciò attraverso cui l’uomo diviene ciò che è: è la tecnica che fa l’uomo, e non viceversa. O, come Stiegler osserva, è lo strumento, la tecnica, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. L’antropogenesi, il divenire-uomo da parte dell’uomo, non è altro dalla tecnogenesi.  

Quel che andrebbe allora finalmente messo in questione è che cosa ne sia dell’insegnamento universitario dopo questa rivoluzione che è già avvenuta da più di due decenni. 

Uno degli esempi più evidenti di questa incapacità di pensare ciò che esige di essere pensato, è la proliferazione dei casi di “dislessia” e di altri “disturbi dell’apprendimento”: negli ultimi anni, non abbiamo smesso di scoprire sempre più studenti con sindrome di DSA, di dotarli di strumenti “compensativi” (registratori digitali, tabelle, mappe concettuali, etc.) e di fornire loro misure “dispensative” (esami suddivisi, verifiche orali al posto di quelle scritte, e così via). 

Quasi nessuno si è posto il problema che, forse, chiamare tutti questi studenti dislessici, “medicalizzarli”, significhi applicare a loro – a chi è nato dopo la rivoluzione digitale – una diagnosi svolta in base a criteri che sono stati individuati a partire dai modi di apprendimento di quanti sono nati prima di essa. Mark Fisher ha proposto di chiamare post-lessia, e non dislessia, la condizione di molti studenti: la condizione, cioè, di una generazione che non ha bisogno di leggere davvero ciò che ha davanti, ma, diversamente, di processare «dati densamente affollati di immagini». La lettura, l’atto di leggere è un atto che implica una temporalità ed una spazialità che è radicalmente diversa da quelle implicate nell’elaborazione di dati

La lettura è una certa esperienza del tempo a cui è del tutto estranea l’esperienza del presente “puro” che è propria del flusso di informazioni, del tempo “digitale”. Sotto questo profilo, i “disturbi dell’apprendimento” non sono semplicemente problemi, di natura psicologica o medica, che riguardano il singolo studente. Il problema, piuttosto, è che la società in cui viviamo dalla metà degli anni ’90, e quindi l’uomo stesso che vi è nato e cresciuto, è post-lessico. Il problema non sono gli studenti. Il problema, se mai, è lo statuto della lettura oggi, è cosa se ne sia di una pratica – come il “leggere” – che non ha nulla di “naturale”, ma è il risultato di una serie di condizioni storicamente determinate. Non occorre qui ricordare, del resto, come “leggere”, come l’atto di lettura, per come noi lo pensiamo, sia essenzialmente un’invenzione moderna – Rolf Engelsing ha, ad esempio, parlato di una vera e propria “rottura” tra il 1750 ed il 1800 nelle pratiche del leggere, con la progressiva affermazione di una lettura estensiva, la generalizzazione della lettura “silenziosa”, individuale, di un nuovo formato dei libri (dall’in-quarto all’in-ottavo o in-dodicesimo) e così via. Per questo occorrerebbe prendere finalmente, e con tutta la serietà che merita, la questione dello statuto del leggere in una società che è post-lessica – che alla lettura ha sostituito il flusso di dati.

Analogo discorso varrebbe per le difficoltà incontrate sempre più spesso dagli studenti nel memorizzare ciò che studiano – si pensi alle continue richieste di programmi più “leggeri”, di manuali più “facili”, etc. Anche in questo caso occorrerebbe considerare come la “memoria” non sia affatto una “qualità” innata dell’uomo, qualcosa che appartiene intrinsecamente alla sua “natura”. La memoria è originariamente tecnica, è originariamente “supporto”, protesi. 

Come Stiegler ha, del tutto correttamente, osservato, la funzione della memoria, ed il suo stesso legame con l’essere umano, conosce una trasformazione radicale nel passaggio che è avvenuto dalle mnemotecniche (come la scrittura) alle mnemotecnologie. Se gli oggetti quotidiani – smartphone, tablet, ma anche elettrodomestici, automobili, etc. – divengono «supporti di memoria oggettiva», ossia dei saperi, essi generano una corrispondente perdita di memoria nei soggetti che li usano. Nessuno sa più “a memoria” i numeri di telefono dei propri amici e parenti (e spesso neppure il suo), poiché essi sono “memorizzati” nel telefono. Allo stesso modo, non occorre più ricordarsi, avere memoria delle vie di una città per districarsi nel traffico, se tale sapere è oggettivato nel navigatore. Stiegler scrive: più le automobili si perfezionano, meno noi sappiamo guidare, più noi «perdiamo gli schemi senso-motori che sono formalizzati dal sistema nella misura in cui esso si automatizza». 

Lo spostamento della memoria dai “soggetti” agli oggetti è la perdita della memoria da parte dell’uomo. Se molti studenti non sono più in grado di “memorizzare” ciò che leggono, di ricordare quello che studiano, è semplicemente perché non ne hanno alcun bisogno, perché nella società in cui vivono ciò non avrà alcuna importanza. E se non si capisce tutto ciò, nessuna misura sarà mai adeguata al problema. 

4. In queste condizioni, era facile che l’insegnamento andasse sempre di più nella direzioni di una trasmissione di informazioni. La rivoluzione digitale, del resto, è anche, in linea di principio, la cancellazione di quella temporalità fondata sulla distinzione passato – presente – futuro a cui noi continuiamo ad adeguare i nostri insegnamenti e il nostro modo di pensare. E ciò laddove, per gli studenti, la “storicità” è divenuta una nozione estremamente problematica, almeno nel senso che noi abbiamo dato ad essa. Questo è inevitabile, in fondo, se si tiene conto che la digitalizzazione – ossia: la determinazione dell’umano che è il risultato delle mnemotecnologie – è fondata sulla simultaneità. Bisogna aver visto come gli studenti reagiscano quando si chiede loro di disporre alcuni eventi sulla classica “linea della storia” disegnata alla lavagna. Anche quelli – certo la maggioranza – che sono in grado di collocarli nel loro esatto ordine, hanno forse, però, perso del tutto il senso di questo ordine: per loro, la scoperta dell’America sembra “lontano”, nel tempo, esattamente quando la seconda guerra mondiale o il Vietnam. Sanno che è “passato”, tutto ugualmente passato. Se, del resto, è in base non al “presente” storico ma alla “simultaneità” che per loro si ordina il tempo, allora ciò che è passato non ha più alcuna storicità, non ha più alcun rapporto con il presente ed il futuro. 

Anche in questo caso, però, ciò va anzitutto pensato – perché nessuna “nostalgia” o nessuna presa di distanza rispetto ad esso condurrà da qualche parte. L’arroganza con cui denunciamo l’“ignoranza” degli studenti è pari esattamente all’atteggiamento di chi definisce il modo in cui Amazon ordina i prodotti nei suoi locali “immagazzinamento caotico”. I libri non stanno con i libri, le padelle con le padelle. In un magazzino Amazon, è al contrario facile trovare dei televisori vicino ai giocattoli, dei libri accanto alle padelle.  Ma non c’è nessun caos, in tutto ciò. Semplicemente, per ragioni di efficienza, Amazon localizza i prodotti che immagazzina non in base alla loro tipologia o in ordine alfabetico, in quanto i consumatori non li acquistano in questo modo: piuttosto, come noto, ciascuno di noi riempie il proprio carrello Amazon con prodotti diversi, sparsi nel catalogo del negozio. Amazon dunque immagazzina i propri prodotti imitando il modo in cui noi li compriamo – ossia per bisogni affini o per associazione di idee – di modo che risulti, alla fine, molto più veloce trovare le merci richieste da chi fa acquisti. 

Ciò che possiamo fare, allora, non è costringere gli studenti ad acquisire quel “senso storico” che noi abbiamo, e di cui siamo orgogliosi: perché nessuno studente, probabilmente, potrà mai ormai acquisirlo. Piuttosto, dobbiamo pensare il modo in cui ciò che lo studente fa spontaneamente possa essere “formato” in modo da funzionare come una critica del nostro senso storico, un modo nuovo – sia per noi che per lui – di pensare il nostro rapporto con il passato. 

5. È a partire da questo quadro che occorre pensare il problema della “riapertura” delle università, della ripresa regolare delle lezioni. Perché voler ritornare “indietro”, chiedere la riapertura delle università e le lezioni in presenza, non significa nulla. L’insegnamento che è stato portato “a distanza” era già tale da poter essere trasmesso, impartito a distanza. 

E lo era inevitabilmente, se da vent’anni il sapere, compreso quello universitario, è divenuto comunicazione, trasmissione di informazioni – e ciò, sia chiaro, è indipendente dalla buona volontà dei professori, o dal loro modo personale e particolare di declinare il proprio insegnamento. Lo stesso “dialogo”, lo stesso rapporto tra professori e studenti non è già da tempo più un dialogo, ma una forma di socializzazione, che rende più “umana” la trasmissione delle conoscenze.

Non c’è ritorno indietro, ad un “prima” che era in realtà già un “poi”. Ed il problema dell’università non è quello di “riaprire”, di riportare le lezioni “in presenza”. È quello, invece, di pensare adeguatamente che cosa ne sia della vita scientifica oggi, in una società in cui è l’umanità stessa dell’uomo ad essere attraversata da una rivoluzione epocale. 

Di questo si dovrebbe parlare, allora: come una vita scientifica, come un insegnamento universitario senza lettura, senza memoria, senza storia? Come trasformare tutto ciò in una nuova possibilità? 

La questione didattica frontale/didattica a distanza rischia di essere, allora, una forma di occultamento della realtà: di una realtà in cui la didattica è già a distanza da due decenni, e continuerà a esserlo, anche quando è frontale. Perché non c’è avvicinamento, non c’è una autentica forma di vita in comune tra professori e studenti, senza che si cominci, anzitutto, un dialogo su ciò che li separa, che oggi li divide. E che è più di un conflitto “generazionale” o culturale. In questo dialogo si gioca, in fondo, ciò che, nei prossimi decenni, si chiamerà ancora “università”; ciò che, da qui a vent’anni, diverrà la concezione occidentale di “cultura”. 

Il problema non è quello – tante volte denunciato – della mancanza di “cultura generale” da parte degli studenti universitari, o della necessità di fornire insegnamenti sempre più “interdisciplinari”. Benjamin, nel 1915, già ironizzava: non si risolverà il problema «proponendo problemi letterari allo studente di giurisprudenza, problemi giuridici a quello di medicina» - il che, va notato, è esattamente quello che spesso si cerca di fare oggi. 

Il problema è quello di riuscire a pensare le condizioni alle quali sarà possibile giungere ad un nuovo concetto di vita scientifica, di comunità scientifica in una società, ed in una epoca, che ha distrutto il significato che quel concetto ha avuto almeno negli ultimi due secoli – poiché è questa sostanziale uniformità che ha assicurato all’università moderna e alla scuola dell’obbligo di rimanere essenzialmente le stesse tra il 1850 ed il 1990.

6. Non si tratta in alcun modo di “venire incontro” alle esigenze degli studenti, sia chiaro. Gli studenti sono i primi, infatti, a pensare ancora nei termini del discorso che gli è stato trasmesso, e che è già superato. A partire dal paradosso – certamente tragico – per cui essi non chiedono all’università che di facilitare loro l’ingresso sul mercato del lavoro, di aiutarli a “professionalizzarsi”, proprio in un momento in cui è divenuto ormai chiaro che la società futura sarà una società di disoccupati, in cui i “posti di lavoro” non esisteranno più grazie all’automazione e alla robotica – e per questo andrebbe, qui, ripreso seriamente il discorso marxiano della liberazione dal lavoro, e non quello “riformistico” della liberazione del lavoro. 

Gli studenti sono già vecchi, da questo punto di vista – o, per dirla con Benjamin: «gli studenti non sono la generazione più giovane, sono coloro che invecchiano». E, per seguire ancora Benjamin, spesso la «mentalità scolastica» è presente più in loro che nel professore. 

Ciò che occorre, ciò che esige di essere con urgenza intrapreso, è un lavoro che possa rendere possibili alle reali ed oggettive condizioni – sociali, “culturali”, etc. – delle generazioni future di divenire possibilità di una vita scientifica, di convertire le incapacità create dall’attuale rivoluzione tecnologica (incapacità di leggere, di scrivere, di ricordare, di “sapere”) in nuove capacità, in “spirito creativo”.

 

     



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