Green pass: discriminazione e controllo.
Tommaso Gazzolo
Vorrei qui di seguito cominciare a ridiscutere due delle argomentazioni principali interne al testo firmato da Agamben e Cacciari dedicato al green pass – le quali muovono, entrambe, dall’idea che si tratterebbe di una misura “discriminatoria”:
(i) da una parte, il green pass sarebbe discriminatorio nei confronti di quanti si sono fino ad oggi rifiutati di essere vaccinati. Esso comporterebbe, cioè, «la discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica». Secondo Agamben, in particolare, il green pass introdurrebbe una discriminazione di una “categoria” di uomini, fondata sulle loro convinzioni personali, e non su una «certezza scientifica oggettiva» - come sarebbe «provato dal fatto che in ambito scientifico il dibattito è tuttora in corso sulla sicurezza e sull’efficacia dei vaccini»;
(ii) dall’altra – come viene scritto alla fine del loro intervento – la “discriminazione” riguarderebbe in realtà, e «paradossalmente», «quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi». Agamben ha, in particolare, insistito soprattutto su questo punto nei suoi ultimi interventi: la vera discriminazione, in fondo, è quella degli “abilitati”, dei possessori della “tessera verde”.
Le due argomentazioni sono diverse, e rimandano a diverse problematiche – ambiti di questioni.
La prima mette in gioco il problema della discriminazione, intesa in senso stretto, ossia come ciò che introduce, direttamente o indirettamente, una differenza di trattamento tra “categorie” di soggetti basata sulle loro “qualità”, su un aspetto della loro identità. L’argomento di Agamben e Cacciari è che il green pass realizzi una tale forma di discriminazione.
La seconda, invece, non riguarda un problema di “discriminazione”, in realtà, ma il diverso problema del controllo – o, per meglio dire, della tecnologia di potere che è alla base di misure come il “green pass”, la quale non corrisponde più a forme di “sorveglianza” classica, ma a una nuova concezione che occorre prendere in considerazione.
Diventa allora essenziale cercare di capire quali siano le due distinte questioni cui Agamben e Cacciari rinviano, prima di potere, eventualmente, replicare nel merito alle loro argomentazioni.
2.1. Comincio dal primo argomento. Il quale parrebbe facilmente ricostruibile, almeno in linea di principio, se non fosse per le critiche rivolte ad Agamben e Cacciari da quanti hanno eccepito che il loro argomento sarebbe identico a quello di chi affermasse che la legge che vieta il fumo all’interno dei ristoranti e dei cinema discrimina la categoria dei “fumatori”, o che la norma che obbliga a portare il casco in moto sia una norma discriminatoria verso i “no-casc”. Siamo pertanto costretti, nostro malgrado, a fare un po’ d’ordine. Non c’è, per definizione, norma che non “discrimini” – dove discriminare significa: introdurre una differenza di trattamento tra soggetti. È del tutto evidente che il divieto di transito alle biciclette “discrimina”, tratta cioè in modo diverso, i ciclisti dai pedoni. Ogni norma è “discriminatoria”, in questo senso. Di per se stesso, il carattere “discriminatorio” della norma non dice, pertanto, nulla – è, anzi, perfettamente corrispondente, non è che l’altro lato del principio di uguaglianza, che impone di trattare situazioni uguale in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso.
Bisogna allora tener distinti due aspetti. Il primo – di cui qui non intendo occuparmi – è che il principio di uguaglianza impone che ogni differenza di trattamento che la legge intende introdurre sia giustificata, e giustificata sulla base delle differenze rilevanti che essa prende in considerazione. Non voglio, come detto, soffermarmi sul problema della “giustificazione” – per quanto certamente, anche rispetto ai problemi del green pass, esso sia essenziale (è “giustificato” trattare in modo diseguale i vaccinati e i non-vaccinati? E da cosa è giustificato?, etc.). Preferisco, qui, muovermi all’interno della problematica della “classe di persone”.
Il secondo riguarda, invece, il punto che intendo trattare. Talora, infatti, la norma discrimina, cioè introduce differenze di trattamento, in base all’azione (meglio: alla classe di azioni) che essa vieta o permette (es: “vietato superare i 90 km/h di velocità”); talaltra, in base al soggetto (alla classe di soggetti) cui si rivolge (es: “tutti cittadini hanno diritto di voto” – che discrimina certamente tra i cittadini e i non cittadini). Le norme giuridiche spesso – e senza che ciò implichi particolari problemi – “discriminano”, stabiliscono differenze di trattamento tra “classi di azioni”. È, cioè, un certo tipo di azione che viene ritenuta, ad esempio, riprovevole o pericolosa, e pertanto vietata – con la conseguenza che essa non potrà essere compiuta, e che il soggetto, l’individuo che vorrebbe compierla se ne veda preclusa la possibilità. La norma, ad esempio, che vieta di gettare le cartacce dal finestrino punirà Tizio, diciamo, in base all’azione che compie, lo punirà per ciò che ha fatto, e non per ciò che egli è, per le sue “qualità” o “convinzioni” personali. Sarebbe assurdo affermare, cioè, che essa “discrimina” la categoria dei “gettatori di cartacce”.
Prendiamo l’altro estremo. Il caso, cioè, in cui le norme discriminano – direttamente o indirettamente – gli individui, i soggetti, per ciò che essi sono, e non per ciò che fanno. Le leggi razziali vietavano agli ebrei di accedere a determinate professioni in quanto ebrei. La discriminazione non verteva, cioè, sull’azione, ma direttamente sulla persona. Ad essere discriminata non è una classe di azioni, ma una classe di soggetti.
L’argomento di Agamben e Cacciari, muove da qui: dall’idea – che è l’idea di ogni Stato di diritto democratico – che non sia mai lecito discriminare le persone per ciò che esse sono. Lo ritroviamo nei principi costituzionali, non solo del nostro Paese, che vietano ogni discriminazione, ogni differenza di trattamento fondata sull’età, sul sesso, sulla religione, sulle convinzioni personali – su ciò che sei, su ciò che fa di te ciò che sei. Agamben – per ragioni certamente legate al carattere giornalistico del suo intervento – chiude così il proprio ragionamento: il green pass discriminerebbe una serie di persone per le loro “convinzioni personali”, escluderebbe dalla vita sociale una classe di soggetti per le opinioni che hanno, per ciò in cui essi credono (non ha importanza, ora, in cosa consista tale “credenza”: la scarsa efficacia del vaccino, o la sua pericolosità, e così via).
2.2. Il problema che tuttavia, è implicito nella posizione dei due autori, in definitiva, è questo: come è possibile, in base a quali criteri, distinguere tra norme che discriminano ciò che faccio e norme che discriminano ciò che sono? Questa distinzione – che è alla base dell’argomento di Agamben e Cacciari –, in altri termini, che carattere ha? È una distinzione teorica, è una distinzione che può essere fondata in diritto?
Certamente è una distinzione di cui il diritto sembra aver bisogno, per varie ragioni. Ed è innegabile che il diritto moderno – a differenza di quanto accadeva per il diritto romano – si articoli, si definisca sulla base di una certa concezione del soggetto. Almeno in linea di principio, il diritto deve presupporre che sia sempre possibile distinguere il soggetto, con le sue caratteristiche essenziali”, dalle azioni o dai suoi predicati “accidentali”, da ciò che gli può accadere, capitare di fare o di essere. Già al livello del diritto privato, vale questa presupposizione. I cd. “diritti della personalità”, ad esempio, sono detti tali proprio in quanto essi atterrebbero al soggetto in quanto tale, in quanto ciò che permane, resta identico nel corso della sua intera esistenza giuridica: diritto al nome, all’identità personale, all’immagine, alla riservatezza, etc. I diritti, invece, che posso avere in quanto, ad esempio, lavoratore, o creditore di una somma, non atterrebbero a ciò che sono, ma a ciò che faccio, che mi accade di fare.
È a questa distinzione che rimandano anche i principi costituzionali, il principio di non discriminazione, la tutela dei “diritti fondamentali”. È l’ idea, cioè, per cui esisterebbero una serie di aspetti che mi definiscono in ciò che sono, nella mia identità – e che non possono costituire ciò in base a cui vengo discriminato (il mio sesso, il colore della mia pelle, il mio credo religioso, etc..) – e, poi, in quanto tali distinti dai primi, una serie di aspetti che, invece, riguarderebbero la mia attività, il la posizione che assumo nella società. Il fatto di essere un operaio o un avvocato, ad esempio, non attiene, in linea di principio, alla mia “identità” di soggetto – è accidentale. Ed è per questo che, a rigore, sarebbe giuridicamente assurdo accusare una legge di discriminare gli operai in quanto operai, nella misura in cui “operaio” non è qualcosa che, nella logica che abbiamo visto, attiene al mio essere ciò che sono.
La domanda resta, allora: in base a quali criteri questa distinzione può essere assicurata? Il “gioco” sembra vecchio – in fin dei conti, consiste nel riprendere la vecchia questione di ciò che separa la sostanza dai suoi accidenti. E anacronistico se, almeno da Galileo, la sostanza è interamente risolta nei suoi accidenti, se la “sostanza”, come tale, non c’è. Ma il diritto continua a pensare che l’ essere o meno calvo, l’essere o meno musico, siano “accidenti” che io posso avere o no, senza che ciò cambi ciò che sono. Ovviamente, il fatto che il diritto abbia bisogno proprio di questa distinzione, ne dimostra tutta l’attualità – e non certo la sua obsolescenza (dimostra che non siamo stati ancora in grado di pensare davvero la fine della sostanza).
Torno al punto. Esiste un criterio – che preceda la legge, che sia legge alla legge – che consenta di dirci se un qualche aspetto “x” riguardi o meno il soggetto in ciò che esso è? Davvero l’essere un operaio è qualcosa che non attiene all’identità personale, ma solo al lavoro che uno fa?
La verità è che non esiste – almeno nei nostri sistemi giuridici – alcun criterio che consenta di separare di diritto ciò che riguarda, attiene, alle caratteristiche “personali”, a ciò che gli individui sono, da ciò che, invece, sarebbe dell’ordine di ciò che essi fanno.
A dimostrarlo, sono del resto le stesse formulazioni, nei diversi paesi europei, del divieto di discriminazione. Il divieto di discriminare qualcuno per le sue convinzioni religiose, le caratteristiche etniche o il sesso, in ultima istanza, è fondato sul fatto che è sulla base di questi aspetti che storicamente, nel passato, sono state di fatto discriminate le persone. Non esistono ragioni teoriche, credo, per affermare che l’ “essere ebreo” caratterizzi l’individuo, nella sua “identità”, in ciò che egli è, più del suo “essere un musicista” o “essere calvo”. Semplicemente, nessuno Stato, fino ad oggi, ha mai discriminato i musicisti in quanto musicisti o i calvi in quanto calvi.
Se, pertanto, per ragioni di fatto, è possibile sostenere che determinati aspetti o “qualità” resteranno a lungo ancora considerati come del tutto “accidentali”, è anche vero che, per le stesse ragioni, il “catalogo” delle caratteristiche che definirebbero il soggetto “in quanto tale” continua a subire modificazioni, ri-articolazioni, a restare costitutivamente “elastico” – si pensi, ad esempio, a come la “vulnerabilità” abbia consentito di applicare il divieto di discriminazioni non solo alle donne e ai bambini, ma anche ai disabili, ai soggetti portatori di AIDS, e così via.
Direi che non esiste alcun criterio che consenta di determinare ciò che de jure possa separare, distinguere ciò che siamo da ciò che facciamo. In fondo, come si dice, siamo ciò che facciamo e che non facciamo – non siamo altro, cioè, che il nostro essere affetti dalle nostre abitudini, dalle nostre azioni. E il discorso di Agamben e Cacciari non muove che da qui: dall’idea che non c’è vita che non sia la sua stessa forma, che ciò che si genera vivendo. Nessuna possibilità, allora, di separare, di diritto, ciò che apparterrebbe al soggetto “in quanto tale”, e ciò che invece sarebbe dell’ordine dell’accidentale, come tale indifferente (che Socrate suoni o meno la lira, non incide su ciò che Socrate è, su chi egli sia).
2.3. Se questa è la premessa, si capisce come la replica, certo possibile, all’argomentazione di Agamben rischia di non cogliere il punto.
Perché, sul piano giuridico, si può certo osservare che il “green pass” introduce un differente trattamento non delle persone, ma delle azioni – un differente trattamento, cioè, dipendente dall’aver compiuto o meno una certa azione (vaccinarsi), e non certo dall’identità o dalle convinzioni personali dei soggetti (non è perché sei convinto che il vaccino non sia opportuno o utile che vieni “discriminato”). Non intendo soffermarmi sulla forza di tale argomento – che il problema non sia semplice, del resto, lo ha avuto chiaro il Consiglio d’Europa, che nella risoluzione del 27 gennaio 2021 ha precisato come occorra assicurare that no one is discriminated against for not having been vaccinated, due to possible health risks or not wanting to be vaccinated.
All’interno della strategia teorica di un autore come Agamben, però, il problema non è questo. È, invece, quello di pretendere di poter separare una presunta “identità” del soggetto dai modi in cui essa si costituisce.
Se l’argomento di Agamben e Cacciari individua, cioè, un autentico problema ancora aperto, è quello dei pericoli che il dispositivo che pretende di assicurare la distinzione tra soggetto e suoi predicati, sostanza e suoi accidenti, qualità soggettive e azioni, importa. Le vere domande che esso sottende sono allora queste: (a) davvero questa distinzione è stata ed è ancora oggi una efficace forma di garanzia degli individui contro le discriminazioni, le pratiche discriminatorie del potere?; (b) o non occorrerà, piuttosto, tentare di decostruire tale distinzione, e cercare di pensare una diversa forma attraverso cui articolare i “diritti individuali”?
Non voglio negare certo che il loro testo intervenga anche, immediatamente, contro il green pass, provando a sostenere che esso costituisce una misura “discriminatoria” anche dal punto di vista del diritto positivo. Ma il problema della legittimità costituzionale del green pass non va confuso con il diverso problema, che lo attraversa, e che riguarda in fondo i limiti della nostra concezione dei diritti individuali, dei diritti “fondamentali”.
Se allora la pandemia non può essere pensata, come Agamben ha da sempre insistito, se non nella sua corrispondenza con la crisi – con la trasformazione profonda – dello “Stato di diritto” («tramonta l’età delle democrazie borghesi, coi suoi diritti, le sue costituzioni e i suoi parlamenti», come egli ha scritto), questa “crisi”, per un giurista, va rintracciata e seguita all’interno degli stessi dispositivi che avevano garantito il funzionamento di quel modello. Se, in altri termini, il “green pass” dimostra qualcosa, è che siamo ormai in un tempo in cui i diritti “fondamentali” non possono più essere pensati a partire dalla distinzione tra soggetto e accidenti. Abbiamo bisogno di una nuova età dei diritti. Ma di diritti che dovranno essere reinventati, prima ancora che nel loro contenuto, nella loro stessa forma.
3. Il secondo argomento che il testo spende è di ordine diverso. Mette in gioco, infatti, non tanto il problema della “discriminazione”, quanto quello della tecnologia politica che oggi corrisponde al nostro tipo di società, e che Deleuze già chiamava “società di controllo”.
Personalmente – per quanto può contare – è dall’inizio della “pandemia” che ho cercato di convincere chi potevo che non stavamo affatto assistendo a misure di tipo “repressivo”, al ritorno di forme di “sorveglianza” disciplinare – sul modello, direi, della “città appestata”. Non si è mai trattato di “rinchiudere”, recludere, isolare. Certo, ciò è stato fatto (le quarantene, il lockdown, etc.). Ma se i cinema, le palestre i teatri, sono stati a lungo chiusi, credo che ciò sia dipeso, semplicemente, da ragioni di precauzione o semplicemente da inefficienza e impreparazione. Non siamo più, infatti, da tempo, in società fondate sull’ideale di imporre una sorveglianza permanente sugli individui, per imporre loro delle condotte, una disciplina. Siamo, invece, in società che sono fondate sul controllo, ossia sull’idea – che il funzionamento degli algoritmi ha ormai portato ad un nuovo e inedito livello – di poter prevedere che cosa le persone, nella libertà dei loro movimenti, faranno ad una certa ora del giorno in un certo luogo.
Ovviamente, questa capacità di previsione dipende essenzialmente dalla raccolta di dati. Ed è per questo che le regole che davvero contano, oggi, sono quelle che consentono il tracciamento degli spostamenti, della circolazione delle persone (obblighi di prenotazione, di registrazione, di conservazione dei dati, etc.), e che esse finiranno per sostituire le prescrizioni rivolte a limitare o vietare gli spostamenti.
Il punto non è, allora, impedirmi di andare in palestra e, poi, dalla palestra a cena fuori in un ristorante, e da lì al cinema con alcuni amici. Tutto ciò non può più funzionare in società come la nostra – per ragioni che sono economiche, ma che riguardano anche i costi sociali e politici che una simile logica implicherebbe. Il punto è controllarmi nei miei liberi spostamenti: è il poter sempre ricostruire, se necessario, dove sono stato un certo giorno, quali persone ho incontrato, o il poter prevedere, sulla base di un flusso continuo di informazioni e di dati e di calcoli probabilistici, quale sarà l’affluenza in un certo luogo e per un certo evento, che tipo di pubblico sarà presente, e così di seguito.
Per questo non credo affatto che chi si è per mesi opposto alle chiusure, o chi continua a chiedere le riaperture, si sia realmente opposto al potere. Di fatto, ha voluto la stessa cosa che il potere voleva: favorire il più possibile la libertà di circolazione (di merci, persone e capitali) – a cui nessun potere può ormai rinunciare – e il flusso di dati e informazioni che ciò implica.
La pandemia ha, da questo punto di vista, determinato una serie di accelerazioni e di innovazioni nei dispositivi di potere che non vanno in alcun modo – a costo di non capire quale sia la posta in gioco politica di oggi – confusi con il ripiegamento verso forme di “autoritarismo” (certo esse sono sempre possibili, in ogni momento della storia: ma possibili come fenomeni reattivi, come sopravvivenze del passato). Le vere innovazioni sono, piuttosto due:
(a) da una parte, lo sviluppo di tutti quei dispositivi che consentono di assicurare un flusso di dati in grado di fondare calcoli predittivi. Si pensi gli algoritmi che in un periodo come questo sono stati progressivamente sviluppati, e che annunciano ciò che davvero rimarrà in futuro: i dispositivi, come ad esempio Alfabeto, che realizzeranno le de-ospedalizzazione della malattia – fine definitiva dei tradizionali luoghi “disciplinari” – per la “gestione domiciliare” del paziente, per “personalizzare” la diagnosi e la terapia; ma anche i programmi che già ora vengono utilizzati per definire il “colore” delle Regioni. Curarti prima che ti ammali, limitare il traffico di ingresso in una Regione prima che i contagi oltrepassino la soglia di “sicurezza”, calcolare in anticipo il numero di persone che saliranno su quel bus a quell’ora in modo da verificare che esso non ecceda i posti seduti disponibili: sono queste le necessità del potere, oggi.
(b) dall’altra, al posto della logica tipica delle società disciplinari – che è quella della “reclusione”, del chiudere lo spazio, isolare e recludere i soggetti, etc. –, una logica che assicurerà meccanismi “fluidi” di entrata e uscita dagli spazi, basati, più che sull’identità concreta degli individui, sui dati che essi possono trasmettere. Ho citato Deleuze, il quale, recuperando un’idea di Guattari, parlava di città «in cui ciascuno può lasciare il suo appartamento, la sua strada, il suo quartiere grazie alla sua carta elettronica (dividuale) che faccia alzare questa o quella barriera, e allo stesso modo la carta può essere respinta quel giorno o entro la tal ora; ciò che conta non è la barriera ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno, lecita o illecita, ed opera una modulazione universale».
3.1. Ora, se si vuole trovare un’analogia relativa al “green pass”, forse si dovrebbe pensare alle tessere che fanno accedere alle lounge o alle sale vip degli aeroporti, ai priority pass, alle carte di credito exclusive, e così via. La strategia non è quella di escludere determinati soggetti, ma riservare determinati spazi ai possessori della “carta”. Che il risultato possa essere lo stesso, non deve far cadere nell’errore.
Perché la logica di fondo è radicalmente cambiata. Il potere non è in ultima istanza interessato a individuare delle categorie di individui da escludere sulla base di determinate loro caratteristiche fisiche o delle loro opinioni.
Il “capitalismo della sorveglianza”, come è stato chiamato, o quella che chiamiamo qui la tecnologia del controllo, è indifferente rispetto alle differenze individuali, alle particolarità. Ciò a cui è interessato è una modulazione dei flussi: è – per ragioni diverse (nel nostro caso sanitarie, ma potranno anche essere di ordine del tutto differente) – di poter assicurare un accesso controllato agli spazi, una ordinata e libera circolazione delle persone, dei beni, dei capitali. Per questo ciò che interessa è la tessera, è la carta elettronica – non il suo titolare, non chi egli sia o come sia fatto o cosa pensi.
Quando i rappresentati politici della maggioranza si stupiscono delle critiche rivolte al green pass, quando protestano di non voler “discriminare” nessuno, di fare tutto ciò solo per garantire la “libertà di tutti”, non occorre accusarli di non essere sinceri. Probabilmente lo sono. E non hanno davvero alcuna intenzione di “farla pagare” ai no-vax, o di creare una categoria di cittadini di “serie b”. Ciò che stanno facendo, del resto, non è esattamente questo. Ciò che stanno facendo non è altro che governare, e governare nell’accezione che Foucault dava al termine: strutturare uno spazio, un ambiente, in funzione di una serie di azioni possibili. Governare, aggiungiamo, in linea con le esigenze di un capitalismo degli algoritmi che ha bisogno essenzialmente di prelevare flussi di dati (e non certo di “sorvegliare” le “persone”) e organizzare spazi, per poter funzionare con i suoi calcoli predittivi. Questo è ciò che i nostri governi hanno fatto durante la “pandemia”: chiuderci in casa, certo, ma solo in una fase di incertezza, per poi, invece, riaprire e definire criteri in basi ai quali, ad esempio, predisporre percorsi separati di ingresso e di uscita negli uffici pubblici o sui mezzi di trasporto, ridurre il numero di posti a sedere nelle sale d’attesa, aumentare, in alcune ore della giornata, la frequenza di erogazione di determinati servizi, e così via. Il “green pass” si inscrive in questa logica. Che non è affatto meno pericolosa di quella dei vecchi autoritarismi, o del potere che agiva in modo “repressivo”. Il punto, però, è individuare quale sia esattamente ciò che va combattuto, ciò a cui ci si deve opporre.
4. Personalmente, non sono mai stato interessato in alcun modo a “discutere” le “opinioni” altrui – e cioè: non ho alcun interesse a chiedermi se Agamben e Cacciari abbiano “ragione” o meno. Mi interessa solo la capacità di definire nuovi livelli di articolazione di una problematica, di un campo di domande. Sul “green pass” e più in generale sulla “pandemia”, allora, la lunga polemica portata avanti da Agamben e, ora, dagli interventi di Cacciari vanno, credo, letti soprattutto come tentativi di comprendere cosa esattamente sia da pensare, sia realmente in questione nei fenomeni politici di questi due anni. Credo allora che, rispetto al dibattito e alla discussione da loro aperta, siano almeno due le questioni che andranno sviluppate:
(i) la prima riguarda la “crisi” (intendo: la trasformazione) del modo in cui il costituzionalismo moderno e contemporaneo ha articolato tra loro il principio di eguaglianza ed il divieto di discriminazione. Va da sé che tale relazione aveva già subito cambiamenti profondi – dettati dall’esigenza di pensare l’eguaglianza come “valorizzazione delle differenze”, di modo da pensare la non discriminazione come ciò che avrebbe dovuto assicurare a l’ “eguale diritto di tutti all’affermazione e tutela della propria identità” (Ferrajoli). Oggi un caso come quello del green pass, tuttavia, mostra tutti i limiti di questo ideale: l’eguaglianza delle differenze continua a presupporre, infatti, la possibilità di separare ciò che attiene all’identità di ciascuno da ciò che costituirebbe, invece, le sue caratteristiche “accidentali”. Ma è proprio questa separazione che, in fondo, la stessa valorizzazione delle differenze – se spinta fino alle sue logiche conseguenze – deve respingere. Questa aporeticità fa problema, e richiede una disattivazione di quella separazione, ed un nuovo pensiero dell’uguaglianza;
(ii) la seconda, invece, è relativa alle trasformazioni che si stanno verificando nelle tecnologie di potere. Eravamo già in una società di “controllo”. Ma lo sviluppo degli algoritmi implica, forse, una fase nuova. Perché, come Rouvroy ha bene osservato, il “controllo”, oggi, non si fonda più sull’idea di poter “influenzare” gli individui ad adottare certi comportamenti, di “agire” sulle cause di determinati fenomeni per ottenere certi effetti. Si fonda, invece, sulla capacità – propria degli algoritmi – di far esistere in anticipo un comportamento e determinando, in questo modo, il futuro. Pensiamo, per ritornare ad un esempio già visto, ad un software per la diagnosi medica che consenta di sapere in anticipo e prevedere l’avvento di un infarto, e così curare preventivamente il paziente. O ad algoritmi che siano in grado di prevedere futuri “focolai” di epidemia, o i futuri guasti di un elettrodomestico. In tutti questi casi certe azioni – adattare determinate misure di contenimento, o ordinare in anticipo i pezzi di ricambio – vengono compiute per il solo fatto di essere state previste in anticipo.
Per valutare il senso di una misura come il “green pass”, occorre allora capire il tipo di tecnologia di potere all’interno della quale essa funzionerà, sarà innestata. Da questo punto di vista, temo che il “green pass”, più che come dispositivo di esclusione di determinati cittadini dalla vita sociale, finirà per funzionare come uno dei tanti dispositivi che, oggi, sono funzionali ad assicurare un “sapere” – sotto forma di flusso di dati – che consenta di anticipare i comportamenti dei cittadini, in modo da determinarne il futuro. Per un filosofo del diritto, anche questo aspetto è di assoluto interesse. Perché questa tecnologia implica un ripensamento radicale del rapporto tra potere e diritto. Le norme giuridiche sono state, tradizionalmente, il mezzo attraverso cui il potere ha agito per costringere, spingere, influenzare gli individui ad adottare certi comportamenti. Quale sia la funzione che esse svolgeranno, però, nel momento in cui il potere cessa di agire cercando di determinare-influenzare la condotta, resta da capire.