Diario della crisi

È possibile trovare le parole per esprimere lo smarrimento che proviamo, in questa sospensione del tempo attraversata da vertiginosi cambiamenti? Per dare voce all'esperienza della separazione dai nostri prossimi, che pure ci accomuna a tutti gli abitanti del pianeta? Per restituire le domande che ci poniamo, immersi in una sfera cognitiva dissonante, con la sensazione che ci sveglieremo da questo incubo in un mondo trasformato e da trasformare? Proviamo a trovare insieme queste parole.

Francescomaria Tedesco - Siamo filosofi o caporali? Contro il Green Pass filosofico

26 ottobre 2021

Siamo filosofi o caporali? Contro il Green Pass filosofico

Più di un anno fa avevo scritto su Micromega, prendendo parola sul dibattito sollevato dalle parole del filosofo Giorgio Agamben (e riservando alle posizioni di quest’ultimo riflessioni non certo indulgenti), che era piuttosto singolare pensare che i filosofi contassero qualcosa in termini di mobilitazione o solo orientamento delle condotte individuali. Scrivevo: “che qualcuno esca di casa e si dia alla crapula vitalistica andandosene in giro a contagiare gli altri perché lo ha detto Giorgio Agamben è una divertente sopravvalutazione del ruolo dei filosofi nel mondo contemporaneo. Magari esistessero ancora condanne a morte per i filosofi che corrompono o che minacciano la salute della società! In realtà, si tratta di un dibattito entro una ristretta cerchia di appartenenti a una corporazione litigiosa, i filosofi”. Quei ‘litigi’, nel frattempo, si sono moltiplicati, e sono solo parzialmente il risultato della fisiologica attività di discussione e ricerca. Certi toni, certe idolatrie, certe scomuniche, fanno pensare che ciò che si muove dietro al dibattito sulle parole di Agamben sia altro.
Una delle questioni che di recente, nel riaccendersi della diatriba, sono emerse, riguarda il tentativo di attribuzione di patenti, galloni, mostrine. Sei filosofo solo se eserciti un’attività professionale riconosciuta come tale, preferibilmente nei ruoli dello Stato e reclutato secondo le modalità previste dalla legge; sei un buon filosofo solo se il circo internazionale della bibliometria ti appunta sul petto la spilletta di autore citato con un h-index degno di considerazione. In altri termini, siccome Agamben è il filosofo italiano più noto al mondo ma non il più citato secondo i parametri indicizzanti di Scopus, allora non è un buon filosofo.
Ora, Agamben non è un professore universitario (lo è stato, ma fieramente nelle alette o nelle quarte da qualche tempo scrive che si è “dimesso dall’insegnamento”). Ma c’è di più: è di formazione un giurista. Il che però, al contrario di quanto affermano i suoi detrattori, gli consente uno sguardo non meno attento ma più attento alle questioni filosofiche, in particolare al nesso tra sostanza e forma (quest’ultima intesa nel particolare senso in cui la intenderebbe un civilista, o un romanista). Non ripeterò qui che le sue idee non mi convincono, soprattutto due: l’idea di un’aristocratica sfida alla bella morte (tema emerso con particolare forza nei suoi scritti sul Covid, ma non solo); la tesi di un continuum trans-storico in cui il potere da Roma ad Auschwitz fa ciò che vuole (uno dei nuclei centrali di tutto il suo lavoro teoretico). Ma il punto non è questo. Il discorso si è infatti allargato a cercare di stabilire, come si diceva, cos’è filosofia e cos’è buona filosofia.
Che la filosofia sia un’attività che ha bisogno di un certificato è una grottesca implicazione burocratica della logica dell’accademia che pensa, attraverso la propria riproduzione endogamica, di rappresentare una garanzia, un bollino di qualità. Che essa debba essere approvata dai ‘pari’, laddove i pari sono quelli che hanno a loro volta il Green Pass filosofico, conseguito per via di quella riproduzione di cui parlavano Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron, idem. C’è più filosofia in una pagina di Agamben di quanta non ce ne sia nelle tristi produzioni abilitative e concorsuali a pagamento di buona parte delle burocrazie accademiche. E non si sta certo tessendo – al contrario – la lode della popsofia, ché Agamben non mi pare proprio riducibile agli ammannitori di banalità prêt-à-porter per il mercato dei filosofinfluencer. Né si sta dando fiato alla protesta anti-accademica alimentata spesso dagli esclusi (sulle cui ragioni, tuttavia, ci sarebbe molto da dire, e l’ho detto, ancora su Micromega, quando ho discusso proprio dei filosofinfluencer): anche io sono – si parva licet e con la mano sulla bocca chiedendo scusa – un accademico. Ma – e qui ricorre una delle figure che più guida la mia attività intellettuale – sono l’ospite ingrato, che pur riconoscendo l’esistenza di una comunità scientifica, la tradisce perché quel tradimento è l’essenza stessa della filosofia.
Che poi il buon filosofo sia colui che viene citato dai colleghi, fa strame di ogni ragionamento riflessivo prodotto dagli studiosi stessi che sono ormai da tempo impegnati a smontare il mito della bibliometria. Se si volesse metterla in burletta, occorrerebbe ricordare che Gramsci ha un h-index di 2 e Croce di 1.
C’è infine un terzo elemento: il filosofo, pare evincersi dalle polemiche di questi mesi, è colui che è ‘responsabile’. E così ci siamo sbarazzati in un colpo solo non già di Agamben, ma anche di Bataille, o di Socrate, o di Marx ed Engels, o di Platone, Spinoza, Bruno, Telesio, Campanella, e così via. Così il filosofo, già dotato di divisa, è anche una sorta di sagrestano delle idées reçues.
Anche quest’idea si acuisce di recente in ragione di quella curvatura che hanno preso le discipline filosofiche accademiche (ma non solo quelle, ahinoi), sempre più costrette, per vivere e fare ricerca, a un’attività di fundraising in cui si sopperisce alla cronica penuria di investimenti statali con l’offerta di servizi e prestazioni alle istituzioni nazionali e internazionali che tengono i cordoni della borsa e che li aprono solo a fronte di procedure competitive in cui al filosofo non viene chiesto di ‘smontare’, ma di aiutare a ‘montare’, ovvero non di esercitarsi su una stucchevole pars destruens, ma di contribuire – ‘responsabilmente’ – a risolvere i problemi della società enucleati
attraverso l’agenda setting dei poteri istituzionali. Stendo invece un velo pietoso su quei filosofi, accademici o extra-accademici, che hanno trasformato la loro disciplina in un’attività di coaching o di counseling o di fornitura di servizi alle imprese.
Il filosofo, per i non-filosofi e sommamente per i potenti (per definizione non-filosofi), è una canaglia. L’unico timbro di riconoscimento possibile è quello sulla scheda poliziesca compilata nelle questure del sapere.

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