Napoli, 12 gennaio 1985
Se nulla ci è dato sapere di Socrate, figura storica per eccellenza mediata dall’opera altrui (tra cui quella platonica) e, pertanto, paradigmatica per lo stesso metodo ermeneutico, non diversamente ne va per gli altri due termini che compongono il titolo della lezione: “religione” e “religiosità”.
Non soltanto non esiste una corrispondenza esatta nella lingua greca (che contempla le varianti eusebeia, hosion, aidōs), ma, secondo l’avvertimento di Gadamer, la stessa idea di “religiosità”, e ancor più quella di “religione”, devono essere radicalmente reinterpretate. Esse non hanno nulla a che fare né con l’idea di “fede” o “credo” (pistis – il termine greco per “fede” – è infatti attestato solo nel Nuovo Testamento, e in età classica in uso nel senso di “sapere affidabile”), né con la presenza di una dottrina o di una forma di rivelazione. “Religione” è, per i Greci, nient’altro che la pura e semplice attestazione del divino: to theîon – ciò che, sempre predicato e mai soggetto, appare come un’evidenza ineludibile, una presenza o un fatto (non diversamente da come accade per i fenomeni atmosferici). “Religiosità” è, del resto, assimilabile a ciò che la lingua esprimeva col verbo nomizein (da nomos): le pratiche e i costumi del culto ammessi dalla città.
Come situare in questo senso l’ininterrotta riflessione, fin dall’età arcaica, sugli dèi e sul mito? E come intendere la lettura aristotelica degli antichi poeti come i primi “teologizzanti” (theologountes)?
Scartando le letture convenzionali, Gadamer ricuce il filo che lega l’antica produzione poetica alle nuove forme della filosofia nascente: l’una come l’altra (da Omero ed Esiodo a Platone, passando per i Presocratici) furono modi di interpretare il senso del divino, e in questo vere e proprie forme della “teologia” greca.
È solo in questo contesto che è possibile comprendere l’intera vicenda umana e filosofica di Socrate. Uomo profondamente religioso – come mostra un’analisi dell’Eutifrone e dell’Apologia –, egli verrà condannato a morte dalla città proprio per asebeia (per aver trascurato il culto pubblico e aver introdotto nuovi dèi). Ma Socrate fu molto più che il semplice inventore del daimon (nuovo dio o prima radice della “coscienza”): è nel pensiero (socratico e insieme platonico) di un cosmo divino, il cui artefice è un dio artigiano (perfetto e compiuto), che riluce la vera relazione tra filosofia e religione. Un’idea che, per la prima volta, trascina il pensiero greco sino ai limiti, fino ad allora impensati, della trascendenza.
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